Ars orafi

L’oreficeria è stata dopo la miniatura e la pittura l’attività artistica più importante a Perugia e nell’Umbria nei secoli dal XIV al XVI. Alla fine del Trecento e nella prima metà del Quattrocento essa si libera delle imitazioni dei senesi e degli abruzzesi per assumere forme sue particolari e fa di Perugia un centro di produzione di bellissime oreficerie quale è difficile rintracciare in altre città italiane, ove si escludano Firenze, Venezia, Siena ed i centri abruzzesi. Gli orefici perugini avevano ottenuto di potersi associare in Arte sino dal 1296 e darsi uno statuto nel 1351.

A metà strada tra l’officina di un fabbro e lo studio di uno scultore, la bottega dell’orafo presenta caratteri simili ovunque, a prescindere dalla sua localizzazione, visto che le tecniche utilizzate a Parigi o a Norimberga erano più o meno le stesse in uso a Roma, a Milano, a Firenze, a Perugia.

L’arredo più importante della bottega era il banco su cui si eseguiva gran parte delle lavorazioni mentre l’attrezzeria era sistemata alle pareti. Nel fondo dei locali non poteva mancare la fornace: utilizzata per le fusioni dei metalli, per cuocere lo smalto e per eseguire la doratura a fuoco.

La prima operazione dell’orefice consiste nell’apprestare il metallo su cui operare. Fatto ciò l’artista segnala le linee e i punti guida del suo lavoro incidendoli con la puntasecca e il bulino. Con l’intaglio a incavo si apprestano i coni delle monete e le matrici dei sigilli. Il disegno da riprodurre viene impresso con uno stampo, detto punzone, su uno o, a seconda del tipo di lavoro da eseguire, entrambi i lati del metallo prezioso. Nel Medioevo quando si pensa ad un orefice si pensa a qualcuno che sbalza e cesella. Sbalzando su una lastra dal di dietro e cesellandola dal davanti si possono realizzare non solo rilievi del più svariato spessore, ma anche oggetti a tutto tondo. La lastra di metallo può essere anche ridotta di volume mediante il trapano e la lima. Il lavoro a traforo combinato con l’incisione in piano o con il lavoro di sbalzo e cesello ha affascinato profondamente gli orefici medievali e ha dato vita a figurazioni ed ornati. Basata sulla qualità fondamentale dei metalli nobili che è la loro duttilità, la tecnica della filigrana è una presenza costante dell’oreficeria medievale. Essa utilizza sottili fili d’oro o d’argento -lisci, intrecciati o granulati- composti a formare un decoro a spirali, a fasce o a reticolo, che poi viene saldato all’oggetto.

L’impiego delle pietre preziose punta sul colore e la luminosità e oltre che per la rarità e il valore venale esse contano per le proprietà terapeutiche e profilattiche loro attribuite. Esse vengono spesso e volentieri affiancate o sostituite da parti vitree. La doratura conosce un impiego costante: grazie ad essa l’argento, il rame e i metalli meno nobili acquistano l’aspetto rutilante dell’oro. L’inganno è in realtà relativo, ma l’effetto sicuro. Esso basta a ribadire la centralità dell’oro nell’oreficeria del tempo, nonché la tendenza di questo ultimo a far proprio, almeno metaforicamente, il sogno alchemico di trasformare tutto nel materiale più prezioso che esista. Il niello gioca un ruolo storico di primo piano raggiungendo una grande diffusione dal XII secolo: si tratta di un composto di argento, rame, piombo e zolfo di colore nerastro che va a riempire il solco di un disegno inciso a bulino e poi cotto a fuoco debole. Lo smalto è una delle tecniche più importanti nella decorazione degli oggetti preziosi, esso veniva spesso abbinato a gemme, perle e oro perlinato rendendo l’oggetto una meraviglia di colori e lucentezza. Ottenuto dalla macinazione di polveri vetrose mescolate a lungo in acqua e colorate con ossidi metallici, lo smalto si presentava come una pasta che una volta asciugata, veniva disposta in un vaso di terraglia coperta con una ciotola di ferro forato e sottoposta a fusione all’interno di un forno a carbone vegetale.